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La regolazione affettiva in Fototerapia Psicocorporea

Di seguito un interessante articolo del Dott. Alessandro Pesce, psicologo e psicoterapeuta ad orientamento Biosistemico: un’immagine, osservata assieme ad un Professionista, diventa un medium per l’approfondimento, l’espressione e la regolazione emozionale aiutando le persone a riconoscere e a promuovere le proprie risorse e a far emergere un solido senso di sé.

 La regolazione affettiva in Fototerapia Psicocorporea
L’utilizzo delle immagini per la regolazione emozionale e il ben-essere

«Guardare è toccare a distanza, guardare è immischiarsi.»
(Baldine Saint Girons)

Premessa
Uno degli aspetti che più amo del mio lavoro è la diversità degli ambiti d’applicazione in cui le scienze psicologiche possono portare il loro contributo nel miglioramento della qualità della vita degli individui, delle coppie, delle famiglie, dei gruppi e dell’intera collettività. La mia curiosità e passione professionale mi hanno sempre spinto ad interessarmi a diversi ambiti della salute mentale, della psicopatologia, dell’arte e delle neuroscienze per comprendere cosa accade nella mente degli esseri umani quando sono felici, realizzati e riescono a rendere virtuose le proprie risorse, o viceversa quando soffrono, sono disperati e si sentono irrimediabilmente persi. Ciò che amo è poter essere testimone di questi slanci vitali e ricercare strumenti per assistere il miracolo della risalita dagli abissi esistenziali in cui a volte gli esseri umani sprofondano.
In questi anni ho imparato che la salute e la malattia non possono essere viste come due condizioni separate in compartimenti stagni, governate dal principio dicotomico tutto/niente o sano/malato: piuttosto mi riconosco maggiormente nella visione di questi concetti collegati da un continuum, in cui la sfida non consiste tanto nell’essere sani o malati, quanto nel trovare il migliore livello di equilibrio e adattamento a seconda della sfida esistenziale che un individuo si trova ad attraversare. Alla luce di questo paradigma d’osservazione i concetti di salute e malattia sfumano gradualmente verso lo sfondo, lasciando il posto alla ricerca di essere integrati e connessi con sé stessi e con il mondo. La nostra capacità di provare piacere nello stare con noi stessi, di stare bene con gli altri, e di gestire gli stress quotidiani della nostra vita dipende dal conseguimento della regolazione affettiva (Cozolino, 2002) che si traduce nella capacità di raggiungere i più adeguati livelli di equilibrio tra il proprio mondo interno (mentale e corporeo) e il mondo esterno (relazionale e sociale).
Corpo, mente e relazione diventano perciò i termini chiave per l’osservazione e la valutazione del nostro benessere, che coincide con la capacità di essere “con l’altro nel mondo”.

  1. Le emozioni, la bussola dell’esistenza
    Se assumiamo che corpomenterelazionesono i tre paradigmi su cui si fonda la regolazione affettiva, le emozioni possono essere considerate la manopola che regola i flussi di comunicazione e interazione fra queste tre parti. Le emozioni, infatti, nascono dai sistemi di base sottocorticali (inconsci) e veicolano il dialogo cervello-corpo-ambiente al fine di raggiungere i più adeguati livelli di adattamento (Rustin, 2013) ed è da questa complessa interazione che si formano immagini somatosensoriali da cui nasce la mente. Sensazioni e percezioni diventano consapevoli trasformandosi in sentimenti, valori, scelte (Damasio, 1995).
    Come già scriveva Darwin nel 1872, l’emozione (dal latino emovere, muovere fuori, scuotere) nasce dal corpo, ovvero dai centri cerebrali profondi e orienta l’organismo alla reazione più adeguata (proprio come una bussola biologica), dando forma e direzione alle nostre azioni, la cui espressione primaria avviene mediante i muscoli del viso e del corpo. Attraverso le espressioni facciali, i movimenti e le posture, le emozioni diventano relazione, comunicando agli altri i nostri stati mentali e affettivi; allo stesso modo, il nostro paesaggio emozionale viene contaminato dall’espressione mimica degli altri in un continuo scambio esplicito ed implicito di informazioni non verbali. Infine, le emozioni influenzano e sono influenzate dai nostri processi mentali, attraverso messaggi ascendenti e discendenti tra i centri corticali, limbici e quelli viscerali (Edelman, 1989; LeDoux, 1996; Liss, 2006; Porges, 2011). Per questo motivo Damasio (1999) definisce le emozioni come la più alta espressione di bioregolazione di un organismo complesso.
    In altri termini, l’emozione è un crocevia dove si incontrano istanze differenti: sensazioni viscerali, movimenti muscolari, pensieri e immagini; tutto questo all’interno di una cornice relazionale e ambientale che ne plasma l’origine e ne sovradetermina il senso (Stupiggia, 2009). In quest’ottica corpo, mente e relazione sono elementi distinti e interdipendenti di un tutto organizzato e mediato dai processi emozionali, dal cui equilibrio dipende il nostro benessere biopsicosociale, che coincide con la regolazione affettiva.

Il fondatore della Biosistemica J. Liss diceva: “l’emozione è come un fiume, se è secco siamo nel deserto, se è sovrabbondante anneghiamo”. Attraverso questa metafora descriveva l’importanza di poter avere degli argini sufficientemente capienti da poter offrire uno spazio in cui l’emozione possa da una parte esprimersi per essere vivi e connessi con la vita, e dall’altra essere contenuta e regolata nel rispetto di sé stessi e degli altri. Con la metafora dell’argine, descriveva un aspetto fondamentale del terapeuta nella relazione d’aiuto.
Attualmente, tutte le forme di terapia considerano la disregolazione degli affetti e i deficit relazionali come una condizione fondamentale dei disturbi psichiatrici, compresi i disturbi di personalità, e perciò condividono lo scopo comune di migliorare l’efficacia dei processi emozionali di autoregolazione emotiva (Schore, 2009). È all’interno di quest’ottica che emerge la necessità di strutturare tecniche di intervento che aiutino le persone ad accrescereesprimere e regolare il proprio paesaggio emozionale.
Anche la Fototerapia Psicocorporea converge in questa direzione.

  1. La regolazione affettiva
    Per comprendere meglio la regolazione affettiva dobbiamo conoscere dove ha origine e come si sviluppa: un neonato viene al mondo con limitate capacità di autoregolazione e dipende in tutto e per tutto da un caregiver sintonizzatoche – oltre a soddisfare i suoi bisogni biologici di base – lo sostiene e lo supporta nella crescita e nella costruzione del suo “sé nel mondo“. Lo scambio relazionale di questa nuova diade è squisitamente senso-motorio: avviene cioè attraverso un dialogo corporeo, non linguistico, fatto di tatto, contatto e scambio emotivo attraverso sguardi, gesti ed espressioni facciali. L’interazione non sarà mediata dai contenuti verbali in sé, piuttosto dal tono, ritmo e prosodia con cui bambino e caregiver comunicano. Come scrive Van der Kolk (2014) la qualità della regolazione affettiva che scaturisce da questo scambio è direttamente proporzionale alla capacità di stabilire una sintonizzazione fisicaritmica con le figure di attaccamento.
    Per assicurare il graduale sviluppo dei sistemi neurali coinvolti nella regolazione affettiva, un bambino deve essere protetto da stati affettivi troppo intensi, prolungati e opprimenti (Cozolino, 2002): disregolazione affettiva, traumi e stress prolungato portano a una perdita di neuroni in tutti i circuiti limbico-corticali compromettendo la regolazione affettiva e le capacità integrative del cervello. Viceversa, interazioni emotivamente stimolanti con il caregiver generano crescita cerebrale che rende il bambino capace di tollerare livelli crescenti di emozioni, mentre conserva l’autoregolazione e mantiene gli ormoni dello stress a un livello ottimale (Schore, 2003). Lo sviluppo di queste abilità, a sua volta, aumenta la capacità del cervello di crescere, stabilire connessioni ed integrarsi. Facendo un esempio di una situazione ideale, immaginate un bambino molto piccolo che incontra il proprio papà al rientro a casa dopo una giornata intera che non lo vede. Immaginate che appena il papà apre la porta gli sorride ed esclama il suo nome con gioia. Immaginate questo bambino che per l’emozione e il piacere gli tende le braccia e il papà lo prende prontamente in braccio e cominciano a sorridere assieme per la felicità di rincontrarsi. Questo scambio a mediazione non linguistica, fatto di sorrisi, sguardi eccitati, contatto corporeo e vocalizzi gioiosi, si sviluppa attraverso i loro corpi veicolando emozioni e sentimenti fondamentali come attesa, gioia, tenerezza, sicurezza, fiducia, ecc. Decine di momenti come questi rimarranno scolpiti nella memoria corporea (implicita) del bambino (e anche del padre) trasformandosi successivamente in valori, pensieri, sistemi di credenze, aspettative e previsioni sugli accadimenti della propria vita relazionale e sociale. Ad esempio il bambino può imparare che “la frustrazione dell’attesa può essere ripagata”, “le persone attorno a me mi amano e sono felici di vedermi”, “se tendo le braccia qualcuno per me ci sarà”, e via dicendo.
    Prima degli studi sull’infant research si pensava che il bambino fosse come un “foglio bianco” o un “contenitore vuoto” che i caregivers “riempivano” con i propri contenuti al meglio delle loro capacità. In realtà oggi sappiamo che anche il neonato è un agente attivo nella costruzione di quella sintonizzazione di cui abbiamo parlato fino ad ora: si crea in questo modo un sistema di mutua regolazione le cui caratteristiche dipendono simultaneamente dalle capacità regolatorie del bambino e dalla funzione di sostegno regolatorio svolto dal caregiver. La qualità di tale sintonizzazione non dipende tanto dalle interazioni positive in sé, quanto dalla capacità da parte di entrambi i membri della diade, di riparare e ripristinare la sintonizzazione precedente la rottura. In altri termini, Tronick (2008) evidenzia come il sistema di regolazione caregiver-bambino proceda attraverso stati di sintonizzazione affettiva coordinati (match) e non coordinati (mismatch), in cui possono emergere errori interattivi da parte di entrambi, con la conseguente emergenza di affetti negativi. In condizioni di interazione normale gli errori vengono riparati rapidamente dal caregiver (reparation), determinando l’emergenza di nuovi stati coordinati. Ripetute esperienze di passaggio dalla regolazione alla disregolazione e nuovamente a uno stato regolato sono immagazzinate nelle reti della memoria implicita che è sensoriale, motoria ed emozionale (Cozolino, 2002) e creano pattern stabili di strategie di regolazione emozionale che si mantengono costanti per l’intero arco vita. Anche da adulti, infatti, sappiamo bene quanto uno sguardo accogliente, una carezza o un abbraccio possano valere “più di mille parole” e quante volte, al contrario, in una discussione ci siamo sentiti gelare il sangue non tanto per i contenuti espressi dal nostro interlocutore, quanto dal tono o da uno sguardo tagliente.
    La comunicazione non verbale – pertanto – rimane per tutto l’arco di vita il nucleo centrale che determina il senso delle nostre interazioni e dei nostri rapporti affettivi e sociali, e il corpo è il principale teatro attraverso cui questo scambio avviene.

2.1 La memoria implicita
La conoscenza dei diversi sistemi di memoria sta avendo importanti implicazioni in ambito clinico: in particolare la memoria implicita ha stimolato molte riflessioni sulle dinamiche inconsce, i cui contenuti sono riferibili a protorappresentazioni percettivo-motorie avvenute precocemente, prima dello sviluppo delle competenze linguistiche. Il neonato possiede già alla nascita un alto livello di organizzazione delle esperienze emotive e percettivo-sensoriali: è in grado di organizzare rappresentazioni pre-simboliche dei modelli di interazione che si consolidano all’interno della relazione d’attaccamento precedentemente descritta. La memoria implicita è presimbolica o anche simbolica e, in larga parte, è preverbale: non è riconoscibile, nè ricordabile coscientemente, inizia in epoca prenatale e perinatale, e rimane sempre attiva durante lo sviluppo condizionando emozioni, affetti e pensieri dell’individuo per tutta la vita (Mancia, 2007).
Questa memoria si è formata a partire dagli ultimi mesi della gestazione: le strutture cerebrali implicate nella memoria implicita sono l’amigdala, i nuclei della base, la corteccia motoria e la corteccia percettiva. Già nella vita intrauterina vengono immagazzinate dal feto le comunicazioni non verbali con la madre, mediate dalla frequenza dei ritmi respiratori e cardiaci e – dalla nascita in particolare – dalla prosodia della voce materna, costituendo un “modello di costanza, ritmicità, musicalità” su cui si organizzano le prime rappresentazioni del bimbo (Mancia, 2007). Nell’età preverbale le esperienze somatiche, sensoriali, motorie ed emotive, vanno a costituire la memoria implicita e costruiscono le reti neurali che forniscono al bambino le fondamenta per la capacità di sentire un sé somatico anche in età adulta. Innumerevoli esperienze di apprendimento – positive e negative – vengono organizzate e immagazzinate nelle reti dell’emisfero destro, e danno origine a ciò che noi chiamiamo “sensazioni viscerali”. Concetti astratti sono legati così al nostro corpo attraverso simboli, immagini, sensazioni e percezioni, mettendo in collegamento la nostra mente con il mondo esterno attraverso l’esperienza del nostro corpo.
Quanto emerso fino ad ora evidenzia l’importanza del corpo nella costruzione del sé e delle capacità autoregolatorie e sottolinea la centralità di tutto ciò che è sottocorticale, ovvero di tutto ciò che prescinde la consapevolezza mentale: emozioni, movimenti, posture, contatto fisico e oculare, immagini, percezioni e sensazioni, tono e ritmo della voce. Queste considerazioni sono alla base della Fototerapia Psicocorporea (Musacchi, 2016) che arricchisce la Fototerapia integrando il corpo come agente attivo e porta l’attenzione non solo a ciò che la persona pensa e proietta sul significato dell’immagine scelta, ma anche a ciò che sente nel corpo e più in generale a tutta l’attivazione fisiologica. In Fototerapia Psicocorporea chiediamo al protagonista (paziente/cliente) di contemplare la foto che ha davanti a sé e contemporaneamente ascoltare cosa succede dentro al suo corpo: come cambia la sua respirazione, il suo tono muscolare, cosa succede se prova a “entrare” maggiormente nella foto mettendola in scena o ricreando una postura fisica che la rappresenti. Quali emozioni sente mentre la osserva o la agisce? Dove le sente nel corpo e come sono queste emozioni? Prediligiamo domande in grado di descrivere ed esprimere il sentire intimo (da intimus: che sta dentro) legato all’immagine osservata, al fine di ampliare l’esperienza soggettiva del paziente/cliente e arricchirla di nuovi significati e altre possibili integrazioni. Cerchiamo in questo modo di attingere alla memoria implicita per farne emergere i contenuti alla consapevolezza. Le reazioni corporee all’immagine ci raccontano una storia attraverso un linguaggio difficilmente esprimibile a parole, perché il linguaggio del corpo ha uno statuto molto differente da quello parlato: mentre le parole soggiacciono alla struttura dell’emisfero sinistro che organizza le esperienze in senso sequenziale e logico-lineare, le immagini vengono processate direttamente dall’emisfero destro che assimila e sintetizza intuitivamente la molteplicità del vissuto e porta ad un sapere emotivo.

  1. Fototerapia Psicocorporea e Neuroscienze
    Abbiamo detto che l’obiettivo nella relazione d’aiuto per come noi la intendiamo, è accompagnare la persona ad integrare il sistema corpo-mente-relazionepartendo dall’idea che l’integrazione non è sincretismo, bensì la possibilità di tenere insieme cose differenti ma legate assieme da un punto di connessione: le emozioninel nostro caso. L’assunto della fototerapia è che un’immagine, osservata assieme ad un Professionista, funge da medium e da elemento di connessione e integrazione dei processi emozionali e affettivi perché coinvolge il corpo, la mente e la relazione.
    Le Neuroscienze hanno iniziato solo da poche decine di anni ad occuparsi di arte ed estetica ma in passato diversi autori hanno scritto a proposito dell’importanza delle immagini per accedere al mondo interno. Jung – ad esempio – riteneva le immagini l’elemento costitutivo dell’inconscio e le descriveva come un ponte di connessione dinamica tra la mente e il corpo, tra l’esperienza conscia e quella inconscia, denominando questa connessione “unità organica”. Ad oggi, le neuroscienze studiano la relazione tra immagine, cervello e corpo dimostrando come l’esperienza estetica coinvolga congiuntamente aree cerebrali a diversi livelli, innescando reazioni nelle aree cognitive superiori, nei centri deputati alla rielaborazione emozionale, fino a coinvolgere i processi viscerali e sensomotori. Anche in questo senso la Fototerapia risulta essere uno strumento integrativo.
    Oltre agli studi di Semir Zeki – fondatore della Neuroestetica e pioniere in questo campo – di particolare interesse sono gli studi del team di Rizzolatti dell’Università di Parma, che nella seconda metà degli anni novanta hanno portato alla scoperta dei neuroni specchio e del mirror system : un sistema biologicamente determinato che mette in diretta connessione ciò che vediamo con ciò che facciamo e sentiamo. Il mirror system mette cioè in relazione diretta e non linguistica il protagonista e l’osservatore. Questo concetto è fondamentale per noi, ed è alla base delle teorie che sostengono la Fototerapia Psicocorporea.

3.1 Vedere è sentire
Come abbiamo visto in precedenza, la sensazione di esistere si radica primariamente attraverso il corpo e dipende dalla sintonizzazione affettiva esperita all’interno delle precoci relazioni di attaccamento. Anche da adulti, infatti, sappiamo quanto sia importante sentirsi visti e capiti e poter condividere il nostro mondo interno con qualcuno di significativo. Questi presupposti valgono anche nella relazione tra paziente e terapeuta e sono alla base dell’empatia. Si pensava che l’empatia fosse una funzione cognitiva, una qualità legata all’intelligenza cosciente: oggi invece sappiamo che l’empatia (dal greco en pathòs: sentire dentro) è la capacità biologica di sintonizzarci con l’altro attraverso il nostro corpo. Tale meccanismo è consentito dai neuroni specchio, i quali attivano schemi motori nell’osservatore corrispondenti a quelli che si attivano nel cervello di chi sta compiendo un’azione, riproducendo internamente una simulazione di ciò che accade esternamente. Questa “simulazione incarnata“, come la definisce Gallese, vale anche per le esperienze emozionali e somatosensoriali: se si osserva un’emozione espressa dalla mimica facciale di qualcuno, quegli stessi muscoli facciali si attivano anche in chi osserva e – analogamente – guardando una persona mentre viene toccata, carezzata, massaggiata, picchiata o ferita, si riattivano le stesse aree somatosensoriali che rappresentano quell’esperienza dentro di noi. In altri termini, l’empatia ci permette di comprendere l’esperienza volitiva, emotiva e sensoriale degli altri a partire dal nostro corpo (Ammaniti & Gallese, 2014). I neuroni specchio permettono di mettere in relazione ciò che vediamo con ciò che sentiamo grazie al processo della simulazione incarnata che permette di instaurare una relazione di tipo diretto e non-linguistico con lo spazio, gli oggetti, le immagini, le azioni, le emozioni e le sensazioni altrui, tramite l’attivazione di rappresentazioni sensori-motorie e viscero-motorie nel cervello dell’osservatore. “La simulazione incarnata ci mette in risonanza con il mondo e permette di instaurare una relazione dialettica tra corpo e mente, soggetto e oggetto, io e tu” (Gallese, 2015).
È da chiarire che “empatia” non significa essere l’altro o sentire esattamente ciò che sente l’altro, è piuttosto un com-prendere, un “sentire dentro di me ciò che proverei nei tuoi panni”: permette sia l’identificazione che la differenziazione sé-altro. L’empatia è la capacità – usando le parole di Gallese – di vivere l’altro come altro sé e contemporaneamente riconoscere in ciò che vedo qualche cosa con cui risuono.
Questo concetto è fondamentale per il professionista della relazione d’aiuto che ha il compito di comprendere dentro di sé come l’altro potrebbe sentirsi emotivamente per entrare in una profonda sintonizzazione, senza tuttavia confondere il proprio vissuto con quello del paziente/cliente.

3.2 L’immagine è corpo
La scoperta dei neuroni specchio ha fornito un contributo alla ridefinizione e comprensione rispetto alla percezione delle immagini e la costruzione del nostro mondo di relazione con le cose e con gli altri. Azionepercezione e cognizione sono parole e concetti che descrivono modalità differenti ma indissolubilmente legate dell’essenza incarnata e relazionale degli esseri viventi, uomo incluso (Gallese, 2015). Secondo Gallese & Freedberg (2008) questi neuroni sarebbero infatti responsabili delle risposte emotive alle opere d’arte, in particolare per quanto riguarda l’immedesimazione con esse. Questi concetti sono fondamentali in Fototerapia e ci guidano nella costruzione di strumenti mirati per la regolazione emozionale. Vedere è un’azione tutt’altro che passiva, dice la filosofa Baldine Saint Girons: “guardare è toccare a distanza, è immischiarsi; gli sguardi sono corpo“. Questa sorta di empatizzazione con l’oggetto artistico è in grado di “bypassare” il pensiero logico lineare e generare a livello corporeo un sapere emotivo elicitato dalle opere.
Quando osserviamo una fotografia “incorporiamo” dentro di noi il senso soggettivo di quell’immagine, che è inevitabilmente diverso se ad osservare la stessa fotografia sarà un’altra persona. La scrittrice Anaìs Nin, infatti, dice che noi non vediamo il mondo per come è, vediamo il mondo per come siamo, riassumendo in senso più “poetico” quanto descritto fino ad ora. In questo senso sappiamo che mentre descriviamo una fotografia noi non parliamo mai solo dell’immagine in sé, ma stiamo aprendo all’altro il nostro “mondo soggettivo” fatto di emozioni, sensazioni, ricordi e relazioni.
Pertanto, in Fototerapia Psicocorporea l’immagine viene considerata come un simbolo (dal greco sin ballen: tenere assieme) perché permette di tenere assieme e integrare la nostra parte cognitiva, corporea e relazionale all’interno di quella cornice emozionale che l’immagine evoca.
Nel prossimo paragrafo vedremo il riassunto di un caso, al quale sono state apportate delle modifiche ai fini della privacy, che possa mostrare in pratica quanto detto fino ad ora.

  1. Il caso di Nina. Non c’è, ma c’è!
    Nina arriva nel mio studio per problemi coniugali. Anzi, per il suo vissuto di grande solitudine che stava logorando il suo senso di sicurezza nella relazione con Giovanni, suo marito. Nina e Giovanni crescono in un piccolo paesino del sud Italia e si trasferiscono a Bologna molto giovani e dopo un primo momento di smarrimento riescono ad ambientarsi abbastanza bene: trovano lavoro, comprano casa e riescono a stabilire nuove amicizie che arricchiscono la loro rete sociale e amicale. Dopo qualche anno, l’azienda in cui lavora Giovanni gli propone di seguire alcuni clienti sparsi per l’Italia e la Svizzera. Entrambi sono felici, nonostante il nuovo impiego avrebbe imposto loro di passare diverse notti separati. Fin dalla prima notte, inaspettatamente, Nina non riesce a dormire per un forte senso di angoscia e inquietudine: “quando lui non c’è non riesco a dormire, mi sento un nodo alla gola e ad ogni rumore sobbalzo! oppure se mi addormento mi sveglio completamente sudata e in preda al panico“. Questo suo pervasivo senso di vuoto e angoscia la portava a telefonare molto frequentemente di notte al marito o a lamentarsi e arrabbiarsi ogni volta che Giovanni stava per partire per una trasferta. “Faccio delle vere e proprie scenate, sembro una bambina! Ma non riesco a fermarmi, è più forte di me! Anche mio marito non ne può più e i giorni che precedono la partenza anche lui è nervoso e quando rientra dalla trasferta passano diversi giorni prima che torniamo a stare bene assieme. Non facciamo in tempo a riprendere l’armonia che già deve ripartire e ricomincia l’inferno“.
    Durante la terza seduta vedo che Nina è distratta e guarda alternativamente me e un lato preciso della stanza, come se stesse seguendo una partita di ping pong. Le chiedo cosa stesse catturando il suo sguardo e lei mi indica una delle tante foto che ho appese nel mio studio. L’immagine appartiene ad una collezione di un’artista iraniana di nome Bahareh Bisheh. Non avevo ancora impostato un lavoro di Fototerapia perché eravamo ancora nella fase di ascolto e anamnesi, ma colgo l’occasione e le chiedo semplicemente di descrivere l’immagine, cosa vedesse e provasse. “Eh, c’è quella bambina lì da sola, rannicchiata per terra, è un’immagine molto triste“. Io tra me e me penso “figurati come si sentirà quando le avvicinerò l’immagine e vedrà che la bambina non è solo sdraiata per terra, ma dentro la sagoma di una mamma disegnata col gessetto!”. Personalmente è un’immagine che mi fa pensare ad un lutto, ma come dice anche la fotografa Neil Leifer una fotografia non descrive la realtà ma l’idea che se ne ha. E anche questa volta la Fototerapia mi sorprende e quando avvicino l’immagine, Nina sospira confortata e dice: “ah, meno male! Almeno la mamma c’è!“. Io rimango stupito ma seguo l’esperienza di Nina e non faccio interpretazioni: il mio approccio alla Fototerapia Psicocorporea segue il modello di fondo della Psicoterapia Biosistemica che è un approccio espressivo-corporeo fenomenologico(Liss e Stupiggia, 1994). L’approccio fenomenologico non interpreta ciò che osserva, lascia piuttosto emergere ciò che accade per come si presenta e lavora sul vissuto soggettivo che il paziente esprime. In Fototerapia questo aspetto è fondamentale e interpretare l’immagine che la persona sceglie porta con sé il rischio di dare suggerimenti che appartengono più al terapeuta che al paziente stesso. Allora chiedo a Nina di contemplare l’immagine e di continuare a descriverla: “beh, a guardarla bene quella non è una mamma, è una nonna. Lo capisco dal foulard che ha al collo, tipico delle nonne di una volta. Ora, però, torno a sentirmi triste e anche vuota“. Dove lo senti nel corpo triste e vuota? Identifico le “parole chiave” nel discorso di Nina (triste e vuota) e le chiedo di esplorarle attraverso una frase direzionale(dove lo senti). La “parola chiave” è una parola “speciale” pronunciata dal paziente: è una parola carica emotivamente, che spicca nella frase o nel discorso o perché stride da un punto di vista del linguaggio, o perché carica di tonalità affettive. Successivamente, la frase direzionale orienta l’attenzione in diverse direzioni: verso l’argomento in oggetto, verso il significato che ha per il paziente o verso il suo mondo interno. Queste tecniche, tipiche dell’approccio biosistemico (Liss, 2004), fungono da “ponte” di connessione tra la parola e il corpo, agevolando il passaggio dall’astratto al concreto. L’obiettivo è quello di “ricucire” i tessuti tra la parte relazionale, immaginativa, corporea ed emozionale nel tentativo di produrre nuovi significati.
    Sento come un buco nello stomaco, una sensazione di disagio molto profonda, come un buco grigio“. Chiedo a Nina di portare la sua mano sullo stomaco, dove c’è il buco grigio e di ascoltare cosa vorrebbe fare il suo corpo e di seguirlo. “Mi viene da ripiegarmi, rannicchiarmi“. La incoraggio a seguire il suo corpo e Nina solleva le gambe e si rannicchia sul divano del mio studio. “È come se avessi paura, e fossi irrimediabilmente sola. È esattamente così che mi sento quando Giovanni non c’è… ma è come se da qualche parte, nascosta non so dove, mi sentissi così da sempre“. Mettere in scena con il corpo un’immagine permette di entrare maggiormente nel vissuto e stimolare la memoria implicita corporea. Nina chiude gli occhi e piange, un pianto sommesso e silenzioso, ha il respiro bloccato e mi sento così lontano da lei in quel momento, come se quella solitudine avesse pervaso tutta la stanza; così le chiedo di aprire gli occhi e di guardare nuovamente l’immagine.
    Quando l’esperienza del paziente sembra essere eccessivamente intensa e disregolante, possiamo utilizzare l’immagine come strumento di autoregolazione per riportare le emozioni dentro i margini della finestra di tolleranza. Siegel (1999) descrive la finestra di tolleranza come i margini entro i quali stati emozionali di diversa intensità possono essere processati senza che ciò comprometta il funzionamento nel suo complesso. Per alcune persone, elevati livelli di intensità emotiva sono gestibili senza alcuna difficoltà e non impediscono di pensare, sentire e agire in maniera equilibrata ed efficace, mentre in altre persone determinati eventi o emozioni possono interferire con le capacità di regolazione affettiva. Traumi o esperienze disregolanti, specialmente se antiche, possono rimanere inscritte nella memoria implicita e riattivarsi ogni volta che nell’ambiente si presenta una situazione analoga, comportando un’impossibilità di vivere e regolare le relative emozioni e i comportamenti. L’ipotesi che avevo era che il vissuto di solitudine di Nina nasceva da eventi troppo dolorosi e intensi e ogni volta che nella sua vita si ritrovava a rivivere una particolare situazione di solitudine, questi vissuti si riattivavano. Attraverso l’immagine la persona può riportare il vissuto fuori da sé, distaccarsene un po’ e riemergere dal buco nero in cui un’emozione troppo intensa può farla sprofondare. Per questo motivo ho chiesto a Nina di aprire gli occhi e di guardare nuovamente l’immagine: “Guardandola mi sento confortata, eppure è così triste!“. La invito a rimanere sulla foto e di indicarmi il punto che suggerisce conforto, per ancorarla ad una maggiore sensazione di sicurezza e far emergere nuove connessioni. “La sagoma attorno alla bambina: la nonna non c’è, ma c’è“. Io ripeto la frase “la nonna non c’è, ma c’è! ripetiamolo insieme, Nina”. Ripetere più volte una “frase chiave” del paziente ne amplifica il vissuto e lo aiuta a mettersi maggiormente in contatto con il significato che contiene. Mano a mano che ripetiamo la sua frase chiave Nina respira di più, si comincia a smuovere dal congelamento in cui si trovava prima e piano piano ritorna seduta sul divano e prende in mano la foto. Capisco che è tornata dentro i margini della finestra di tolleranza e le domando: cosa ti evoca la frase “la nonna non c’è, ma c’è?”. Nina fa un’espressione tenera e commossa e dice: “adesso ho capito! Quando ero piccola i miei genitori litigavano sempre, i conflitti erano veramente travolgenti e io mi salvavo andando a casa di mia nonna materna, che era di fronte alla nostra. Era l’unica che si preoccupava per me, era sempre gentile e premurosa e io volevo dormire da lei perché solo con lei mi sentivo al sicuro. Non ricordo cosa successe, perché ero piccola, ma un giorno mio padre litigò anche con la nonna e mi proibì di andare da lei. Così, di punto in bianco! Per me è stato tremendo e la notte non riuscivo a dormire. Allora sai cosa faceva mia nonna? Accendeva e spegneva a intermittenza la luce di camera sua, e io dalla mia cameretta, dall’altra parte della strada, potevo vederla e rispondevo allo stesso modo. Così potevamo darci la buonanotte ma soprattutto era il suo modo per dirmi che mi pensava e che comunque c’era anche se non era lì con me. Allora io mi tranquillizzavo e riuscivo ad addormentarmi“.
    “Ecco, Nina, quella bambina ti ricorda te stessa tanti anni fa, quando la notte ti sentivi sola e spaventata. E sembra che ti ricordi anche che esiste più di un modo per sentire vicine le persone che ami”. “È proprio così” risponde lei. Questo intervento si chiama riformulazione e riassume il senso di ciò che è avvenuto ed emerso in seduta fino a quel momento ed è utile per almeno due aspetti: permette al paziente di sentirsi visto e riconosciuto aumentando il senso di sicurezza nella relazione e porta ad un’attivazione corticale, che permette di dare un senso cognitivo al lavoro emozionale svolto fino a quel momento. Questo passaggio completa l’integrazione tra la parte cognitiva, emotiva e corporea all’interno di una relazione terapeutica sicura.
    Le sedute sono continuate per diversi mesi e hanno avuto come obiettivo l’aumento del suo senso di sicurezza interno, dando valore tanto alle sue paure quanto alle sue risorse. Oggi Nina tiene sul comodino la sua foto di bambina accanto a quella di sua nonna (davvero ha un foulard legato al collo con un fiocco!), continua a non amare dormire da sola, ma ora è più calma e riesce ad addormentarsi. Giovanni ha compreso meglio il vissuto di Nina e quando lei va in angoscia è più accogliente, rassicurante e riesce ad esplicitare di più quanto anche lei gli manchi quando non dormono assieme.
  2. Conclusioni
    La Fototerapia Psicocorporea è un insieme di tecniche terapeutiche che si avvale dell’uso delle immagini e delle fotografie congiuntamente al lavoro di connessione corporea ed emozionale proprio della Psicoterapia Biosistemica. Il progredire delle neuroscienze ci insegna che le immagini sono corpo e che – come ogni processo corporeo – sono portatrici di significati emozionali e relazionali. La Fototerapia Psicocorporea è caratterizzata da una parte da evidenti basi neuroscientifiche e dall’altra si arricchisce di strumenti espressivo-creativi offrendo al terapeuta un insieme di metodologie teorico-pratiche utili a favorire l’espressione e la regolazione emozionale e integrare il sistema corpo-mente-relazione. Un’immagine, osservata assieme ad un Professionista, diventa un medium per l’approfondimento, l’espressione e la regolazione emozionale aiutando le persone a riconoscere e promuovere le proprie risorse e a far emergere un solido senso di Sé.

Bibliografia

  • Ammaniti, M; Gallese, V. (2014). La nascita della intersoggettività. Raffaello Cortina Editore.
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